Gli ultimi by Domenico Quirico
autore:Domenico Quirico
La lingua: ita
Format: azw3, epub, mobi
editore: Neri Pozza
pubblicato: 2013-08-14T22:00:00+00:00
Rasputin
Sì, noi siamo gli Sciti, sì, noi siamo degli asiatici
Dagli occhi stretti, dagli occhi rapaci
Noi volgiamo verso di voi la nostra faccia asiatica…
Aleksandr Blok, Gli Sciti
Non giudichiamolo dalla sua sporcizia, dai suoi amori sudici e brutali, dalle sue sbornie, dal suo ghigno spregioso e amaro, dal suo lato oscuro: lo starec Grigorij Efimovič Rasputin, apostolo abusivo e disumano, ha una dialettica che non soffre timidezza, cammina su binari inflessibili, la cui stazione finale è la rivoluzione. È un mentecatto, un baro Grigorij? È un santo, o la Bestia dell’Apocalisse? Forse, considerato come muore mugolando, mordendo, tremando di furia assassina. Questo profeta non si sa bene che razza di animale sia. Mena molto la coda, si sollazza in tutti i luoghi più impropri e vietati e fa scandalo, con una sufficienza che sa di dita inchiostrate nel Vangelo, di non so quali vittorie, degne di gente che si è imposta ai padroni nelle sale, risalendo dalle stalle e dalle cucine. È una genia spregevole, maligna e spiacente, bruttissima e logorroica di annunci e vaticini. È una parola vuota, Rasputin, la più vuota e più rumorosa di una epoca di tempesta. Ma il raccapriccio, lo schifo, il senso di disfatta sanguinosa e grottesca che accompagnano la sua fine, la stessa dannazione postuma con cui i suoi eredi, i bolscevichi, hanno cercato di risolvere il caso imbarazzante e di abrogare quello scomodo e laido Giovanni Battista, non bastano a rassicurarli. Essi sanno, nello stesso momento in cui odiandolo lo distruggono, di essere, in un canto della loro anima, Rasputin.
Sta lì davanti, umiliato e spogliato, il liquidatore, come uno che non ha più diritto al proprio dolore perché la sua vergogna è diventata universale. Tutta la sua terra ribolliva di chiese, reliquie, monasteri, visioni, conversioni, profezie. Ma tutto era ormai senza furore, una germinazione sterminata, burocratica e tranquilla. Se ne potevano ricavare solo esasperati tumulti contadini, politicamente inetti: nessuna rivoluzione. Con lui la atavica predilezione per la notte, l’anchilosata e irriducibile fuga dell’uomo russo per le tenebre, verso le tenebre riappare, sconvolgente. Ma lui non conosce più la combinazione per uscirne, per uscire da se stesso.
Lenin, sì Lenin, e la valle di lacrime bolscevica, la grande quaresima del despotismo hanno avuto un anticipatore: quel carnevale del monaco nero. Aveva imposto come ministro degli Interni al fragile Nicola II Aleksandr Protopopov, già il sentiero del Golgota era dietro un gomito della strada: nella cartella della sua creatura due misure che avrebbero dato poi ai bolscevichi la vittoria, l’esproprio delle terre della aristocrazia e la loro divisione tra i contadini, il problema che la mezza rivoluzione del 1905 aveva lasciato in sospeso, e la conclusione della pace separata con la Germania. Ecco: il programma di Lenin.
L’aveva ben compresa la sua pericolosità il comandante generale del palazzo, luogotenente generale V.A. Dedjulin. Scriveva, era l’aprile del 1908, a sua eccellenza il capo pietroburghese della Ochrana colonnello Gerasimov a proposito di Rasputin: «È comparso un contadino, con ogni probabilità un RIVOLUZIONARIO travestito che frequenta signore della alta società.
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